Cerca nel blog

mercoledì 2 gennaio 2013

prsentazione catalogo ALMACEN





1.

Lo spagnolo almacén è parola di origine araba - gli Arabi rimasero in Spagna per quasi otto secoli, e precisamente dalla primavera del 711 quando l’esercito di āriq ibn Ziyad, wali  berbero di Tangeri, sbarcò sotto la roccia che da allora porta il suo nome, Jabal āriq, Gibilterra,  fino alla resa di Granada,  il 2 gennaio del 1492, quando la città cedette all’assedio del corpo di spedizione  guidato da Ferdinando II, re di Aragona e coniuge di Isabella regina di Castiglia, e questo evento, che mise fine all’occupazione araba in Europa, si dette circa nove mesi prima della scoperta dell’America, e il mondo prese tutta un’altra piega.  Almacén  dunque deriva dall’arabo ispanico almahzan o al majzan, a sua volta proveniente dall’arabo classico mahzan o majzan il cui significato è deposito.

Le prime due definizioni che la Real Academia de la Lengua Española da ad almacén sono le seguenti:

(1)Edificio o local donde se depositan géneros de cualquier especie, generalmente mercancías.
(2)Local donde los géneros en él existentes se venden, por lo común, al por mayor.”

Va rilevato inoltre che il termine spagnolo indica in particolare un luogo dove vengono immagazzinati materiali che non possono esser considerati come materie prime, quindi prodotti semilavorati e prodotti finiti in attesa di esser trasferiti all’anello successivo della catena di distribuzione. Infine  può designare sia un deposito di oggetti e materiali da imballaggio, che di pezzi di manutenzione e di ricambio.

Da qui le funzioni principali di un almacén sono quelle del ricevimento, dello stoccaggio, del ritiro, della spedizione e della gestione di un inventario a cui corrisponde un sistema di  identificazione degli spazi assegnati a ciascun oggetto e materiale.




2.

Fran Bobadilla è nato nel 1975 a Lugo in Galizia ed è arrivato in Italia dieci anni fa stabilendosi prima a Roma, quindi a Bologna e infine dal 2008 a Sesto Fiorentino. E’ un pittore.

In quanto tale la sua pittura intercetta due traiettorie.
Una è quella di cui potremmo individuare gli inizi nella seconda metà degli anni 50 del secolo scorso, se di inizi si possa parlare, che mi sembrerebbe piuttosto trattarsi di un gusto e di una pratica, ambedue ampiamenti diffusi in tutta l’area occidentale e nei territori da questa dipendenti in particolare per quanto riguarda l’arte, ma non solo, pratica e gusto di diretta derivazione surrealistica, dopo la contrapposizione, a volte estrema, che aveva caratterizzato l’arte del Secondo Dopoguerra fra Astrattismo, da una parte e Figurazione, dall’altra.
In Italia ad esempio si avrà una corrente di chiara ascendenza surrealista che si dota dell’etichetta di Nuova Figurazione. Ma fenomeni analoghi si manifestano in tutta Europa, ma non solo: dall’Inghilterra alla Grecia, dal Belgio alla penisola iberica,  dal Nord al Sudamerica.  E’ come se il mondo si sottraesse ad una rappresentazione unitaria e si rendesse visibile per frammenti, in cui le distinzioni fra  reale e immaginario, fantastico e documentale, veglia e sogno, memoria e prefigurazione di desideri e di paure,  si facessero labili e incerte e tutto trovasse alla fine una sorta di ricomposizione estetica sulla superficie della pittura.
Come se all’arte dura della denuncia seguisse un’arte consolatoria, o isterico/schizofrenica, della fuga. Questo almeno nella maggior parte dei casi, con qualche straordinaria e lancinante eccezione: penso alla virulenza storicistica di un Francis Bacon, al parossismo anti-astratto di un Philip Guston, alla visionarietà fuori registro di un Howard Hodgkin. La pittura di Bobadilla su questa traiettoria si colloca su un asse per così dire buonista, dove tuttavia non mancano incursioni inquietanti.
Questo si deve all’altra traiettoria che Bobadilla intercetta, e che è quella di una certa grafica che in particolare in Spagna si manifesta dopo la morte di Franco e il ripristino della democrazia. L’entusiasmo contagioso della movida  trova fra i suoi maggiori canali di espressione tutte le forme delle sottoculture giovanili spettacolari, che allora, e per la prima volta in quel contesto, esplodono con clamoroso vigore, ma anche nel cinema, nella moda, nel design, e, appunto, nella grafica, tenendo in questo caso ben presente il dettato glorioso degli antichi maestri, da Picasso a Miro. Una grafica farraginosa dove l’estetica del collage e quella dei graffiti metropolitani, la gestualità più violenta e subitanea e la voluta mancanza di controllo in favore dell’immediatezza emozionale, configurano pagine di irruente e disordinato impatto.
L’arte di Bobadilla su questo incrocio si imposta. E, vedremo dopo, non si tratta solo di pittura.


3.

Di Edoardo Casini so poco. Nato a San Giovanni Valdarno nel 1980, è anche lui pittore. Nel 2011 con Bobadilla da inizio al progetto ROSSOCULO in cui tentano l’azzardo di realizzare dipinti a quattro mani mantenendo ciascuno la propria cifra distintiva e limitandosi ad integrarne forme e motivi all’interno dello stesso quadro. 




4.
La loro collaborazione va oltre quando anche Casini interviene in una ulteriore modalità di lavoro intrapresa da Bobadilla a partire dal 2010: la realizzazione di mobili.
Si tratta alla fine di bricolage. Il materiale attraverso cui i mobili sono assemblati proviene tutto da una sorta di quotidiana ricerca e soprattutto scoperta – Picasso usava dire che lui non ricercava, trovava – di oggetti abbandonati vicino ai cassonetti  dell’immondizia delle aree urbanizzate o in improvvisate e temporanee discariche ai margini delle città. Sono gli scarti del consumismo, della perdita di memoria, del degrado culturale che affligge il tempo in cui viviamo, che tracima tutto quanto viene travolto dall’onda montante dell’obsolescenza e della progressiva perdita di funzione. Relitti di un ripetuto naufragio, culturale prima di tutto, rischiano la totale sparizione, la dissolvenza ultima nel nulla dalla cui originale inconsistenza erano usciti proprio per arginarla. Al loro recupero, in tempi diversi, hanno provveduto altre pratiche costruttive, anche nobili dal bricolage surrealista all’anti design, altre mode, prima fra tutte quella della rivalutazione del kitsch attraverso il camp[1].
Nel loro caso tuttavia non prevale tanto il feticismo che dominava le prime, né il paradossale sarcastico che aveva affetto le altre. Si tratta piuttosto di una accentuazione/traduzione di quel che era già apparso nella pittura, di Bobadilla in particolare, di cui ho trattato sopra, e che definirei come un gusto, nel senso positivo che questo termine può assumere. Un gusto, della cui formazione ho tracciato sopra una sorta di genealogia, ma anche nutrito della realtà di un presente, minoritaria più che minore, aliena ai clamori che lo assiepano, come dispiegata in una sorta di oasi di silenzio dove filtrano le memorie e si accendono eco sottili di quanto va nascendo e vive nel proprio tepore, come di quanto non è mai nato, pur avendo potuto farlo, sotto il glamour arido e smemorato del Grande Mondo. Occuperanno lo spazio che sarà loro assegnato da chi ne entrerà in possesso – sono destinati ad essere oggetti di arredo – con indulgenza mediterranea, più che imporsi per una loro sostanziale, o apparente, estraneità.








5.

In occasione di Almacén troveranno una temporanea collocazione nello spazio che Antonio Lo Pinto ha aperto sotto il nome di C2, in quello che resta il suo studio “per presentare progetti sull'arte contemporanea ospitando i lavori di artisti e i progetti espositivi di curatori e critici d'arte allo scopo di creare relazioni”.

Una mostra in forma di almacén.




Pier Luigi Tazzi
Korat, agosto 2012.


[1] Vedi in particolare Susan Sontag, Notes on Camp, 1964.